venerdì 27 febbraio 2009

Un pokerino tra amici


Ogni tanto ricevo una chiamata, di solito da Gianni o Massi, che mi invita a una serata di poker.
Qualche chiarimento è d’ obbligo.
Gianni, Toni e Massi sono 3 amici con cui ho condiviso l’ anno di servizio civile. Per come l’ abbiamo fatto noi, quell’ anno è stato piuttosto intenso: si dormiva in comunità assieme, ci dovevamo occupare di tutto, dal cucinare, al fare la spesa (con i soldi che non bastavano mai), alle pulizie. Tutto questo ovviamente oltre alle normali attività giornaliere con i ragazzi di cui ci occupavamo.
Io sono abbastanza scandaloso e li chiamo molto di rado. Loro invece, mi chiamano ogni volta e io sono ben contento di partecipare.
Le nostre serate cominciano con una pizza (o simili) e poi si comincia a giocare. Ovviamente si gioca a soldi: 50 fiches da 0,10€ per un totale da capogiro: ben 5,00€.
Se la serata va male rischi di perdere anche 3,00€ in una volta!!
Se va bene, magari riesci a comprarti un Dylan Dog.

In realtà il poker è una scusa per ritrovarsi e aggiornarsi sulle rispettive vite, sui figli, sul lavoro, il tutto condito da un bel po’ di battute, insulti benevoli e prese in giro.

E’ un copione già scritto: Gianni vince sempre e non bluffa mai; se punta 2 fiches puoi star sicuro che ha almeno un tris.
Toni gioca per divertirsi e lui comunque va a vedere…e quasi sempre gli va male.
Massi è meno scontato, qualche volta potrebbe anche bluffare, ma può anche essere che abbia davvero un bel punto.

Toni insulta Gianni perché ha troppo culo, Gianni dice che anche Massi non scherza e Massi ribatte citando la mano precedente. Qualche scongiuro, un paio di risate e si chiede a chi tocca dare le carte.

La serata di poker è una serata tranquilla, divertente, che mi dà sicurezza. E’ un posto caldo, accogliente, dove puoi abbassare le difese perché nessuno ti pianterà un coltello nella schiena.

Sono grato a Gianni, Massi e Tony che continuano a telefonarmi, nonostante i miei silenzi, le mie facce tristi, nonostante io mi faccia sentire pochissimo e senza mai chiedere o pretendere nulla in cambio.

Grazie ragazzi, la prossima volta che giochiamo cercherò di non farvi troppo male!!


mercoledì 18 febbraio 2009

Ultracorpi


Ci sono alcuni film del passato che vengono continuamente citati come capostipiti e ispiratori di un genere, indicati come imprescindibili da qualsiasi appassionato: film come “ombre Rosse” di John Ford per il western o il “Nosferatu” per il cinema horror.
Io mi sono sempre definito un appassionato di fantascienza, anche se non un esperto, ma ammetto di avere delle grosse lacune sui film d’epoca.

Per questo l’ altra settimana ho dedicato una delle poche serate davvero libere per guardarmi “L’ Invasione degli ultracorpi”, film del 1956 di Don Siegel, tratto dal romanzo omonimo di Jack Finney.

La storia è piuttosto semplice ed è basata sull’ ipotesi che una razza di esseri vegetali, capaci di imitare perfettamente gli esseri umani in tutto tranne che nelle emozioni, si impossessi poco per volta di una cittadina degli Stati Uniti sostituendosi ai suoi abitanti e minacciando di estendere l’ invasione a tutto il pianeta.
Insieme al protagonista, lo spettatore scoprirà questo piano di invasione e seguirà la sua fuga dalla città per avvisare il resto del mondo del pericolo che sta correndo.

Tutto il film è basato su questa fuga, in cui chiunque, anche l’ amico più caro o la persona amata, potrebbe essere in realtà un nemico.

Che origine abbiano questi vegetali, non viene chiarito e in fondo nemmeno importa.

Non viene neanche rivelato se l’umanità ce la farà a sopravvivere, anche se il film si conclude con una nota di speranza (tra l’altro neanche prevista nel progetto originale).

Il film è ovviamente lontano anni luce dagli standard degli attuali film di fantascienza, basati per la maggior parte sugli effetti speciali, sull’ ambientazione, la fotografia e l’ azione. Già all’ epoca, anzi, il film si distinse proprio per la totale mancanza di effetti speciali, se non per i famosi “baccelli”, piuttosto semplici da realizzare.

Gli invasori non sparano, non hanno astronavi, non emettono raggi dagli occhi, ma sono assolutamente identici agli esseri umani.

Tutto il film è giocato sulla fuga, sull’ essere braccato, sull’ incertezza e il sospetto verso chi ci sta accanto (per questo qualcuno in anni passati volle vederci una metafora della paura dei comunisti e del macchartismo).

Purtroppo noi pubblico moderno siamo meno impressionabili rispetto ai nostri progenitori, quindi immagino che l’ effetto sia attenuato rispetto al pubblico degli anni ’50.
Visto con gli occhi di oggi però il film acquista, almeno per me, un grandissimo fascino, dato dall’ ambientazione, dalle automobili, dalla tecnologia, dai vestiti, ma anche dall’ atteggiamento dei personaggi, da una cortesia e un modo di relazionarsi ormai lontano da noi.

Mi colpiva un fatto: in questi giorni è uscito in Italia il primo numero di una miniserie della Marvel Comics intitolato “Secret Invasion”, in cui si scopre che una razza aliena mutaforma denominata Skrull da anni si è infiltrata nella società dei supereroi, sostituendosi agli individui originali, con lo scopo di facilitare l’ invasione del pianeta. Gli Skrull sono indistinguibili e non individuabili in nessun modo e chiunque al nostro fianco potrebbe essere uno Skrull.

Non suona stranamente familiare?

lunedì 2 febbraio 2009

Laika

Ieri pomeriggio ho finito di leggere il romanzo a fumetti LAIKA di Nick Abadzis. Il libro racconta con un certo rigore storico e scientifico la storia della cagnetta Laika, il primo essere vivente lanciato in orbita in un veicolo spaziale, lo Sputnik II.
Il lancio, avvenuto in Unione Sovietica il 7 Novembre 1957, giorno del 40° anniversario della Rivoluzione Russa, fu un evento di importanza storica.

Il libro di Nick Abadzis si concentra sulla vita di Laika, una cagnetta randagia, bianca e marrone, il cui vero nome fu Kudrjavka, dalla sua nascita fino alla sua morte avvenuta in orbita poche ore dopo il lancio.

L’ autore, come dimostrato dalla bibliografia pubblicata in calce al volume, ha effettuato delle ricerche approfondite sulla vicenda, che gli hanno permesso di inserire date e notizie storicamente precise, lasciando alla fantasia gli aspetti più propriamente umani, specie dell’ infanzia della cagnetta.

In fondo non è un libro di storia quello che vuole scrivere Abadzis, bensì un libro che emozioni, sul destino e sulla fiducia.

I disegni non colpiscono per la loro accuratezza, anche le pagine più curate non hanno alcun vistuosismo artistico, ma sono completamente al servizio della storia; spesso i volti sono solo accennati e le anatomie appena abbozzate, ma proprio per questo il lettore si concentra completamente sulla storia, senza venire distratto dall’ aspetto puramente estetico delle tavole.

“Laika” E’ un libro triste ed emozionante. Giri le pagine, ti affezioni e ti intenerisci, anche perchè già conosci la conclusione scontata.

Laika è come un bambino: assolutamente indifesa e che cerca solo qualcuno di cui fidarsi e a cui affidarsi. Spesso viene ritratto il viso di Laika, con pochi tratti e gli occhi che sono solo due puntini neri di china, ma una didascalia recita “non preoccuparti”, “fidati di me”, “brava Kudrjavka”; intanto si racconta che i cani venivano addestrati, rinchiusi in gabbiette piccole e anguste per farli abituari alle capsule spaziali, sottoposte a centrifughe per far loro sopportare meglio l’ accelerazione gravitazionale, nutriti a cibi in gelatina, operati per impiantare sensori per monitorare le funzioni vitali.

Tutto ciò però non viene presentato come fossero torture o gesti di sadismo gratuiti, bensì come necessari e inevitabili; in fondo gli animali servivano in ottima salute!

Devo dire che nel libro non ci sono personaggi davvero negativi o “cattivi”. Gli scienziati del programma spaziale, gli addestratori, sono persone comuni, vere, che nutrono affetto e pietà per quella cagnetta, ma che hanno dei doveri, in un contesto storico particolare come quello della Guerra Fredda degli anni ‘50.

Credo che “Laika” sia anche un libro amaro, sulla fiducia; la fiducia cieca di un cane (o di un bambino dico io) che si affida completamente a una persona, senza chiedere nulla se non affetto, rimanendo però, alla fine, uccisa proprio da quella fiducia.

“Nulla dura per sempre, ma allora perché preoccuparsi? E’ questo il segreto. Non preoccuparti, anche se coloro che ti lasci alle spalle, continueranno a pensare a te”.